Simona Di Lucia
La strage di via Fani e il rapimento di Aldo Moro nell’ora più buia della Repubblica italiana

Roma, giovedì 16 marzo 1978: alla Camera dei deputati era previsto un dibattito che avrebbe preceduto il “voto di fiducia” in favore del 4° Governo presieduto da Giulio Andreotti. Si trattava di un momento epocale per la politica italiana, in ragione del fatto che, per la prima volta dal 1947, il Partito Comunista Italiano avrebbe contribuito in modo diretto e decisivo alla formazione di una maggioranza parlamentare, che avrebbe dovuto sostenere il nuovo esecutivo. L'iniziatore e promotore di questa difficile manovra politica era stato Aldo Moro, Presidente della Democrazia Cristiana. Verso le ore 9:00, in via Mario Fani – strada situata nel quartiere Trionfale –, la FIAT 130, con a bordo il Presidente e l’ALFA ROMEO Alfetta, con a bordo gli uomini della scorta di Moro, furono bloccate all’incrocio con via Stresa, da un commando armato delle Brigate Rosse: i terroristi crivellarono di colpi le due automobili, con gli uomini della scorta a bordo, uccidendoli brutalmente, dopodiché sequestrarono il Presidente democristiano.
I brigatisti lasciarono subito il luogo dell’agguato, allontanandosi su diverse auto, facendo perdere le proprie tracce. Restarono sul campo i cinque uomini della scorta: i carabinieri Oreste Leonardi e Domenico Ricci, e gli agenti di polizia Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino. Lo stesso Presidente Aldo Moro venne assassinato, successivamente, il 9 maggio dello stesso anno, dopo 55 giorni di prigionia. A distanza di 43 anni da quel giorno, il Presidente della Repubblica Sergio Matterella, il 16 marzo 2021, ha deposto una corona di fiori in via Mario Fani. Il Capo dello Stato ha proferito, in questa occasione commemorativa, le seguenti testuali parole: «Una data, quella del 16 marzo 1978, incancellabile nella coscienza del popolo italiano. Lo sprezzo per la vita delle persone, nel folle delirio brigatista, lo sgomento per un attacco che puntava a destabilizzare la vita democratica italiana, rimangono una ferita e un monito per la storia della nostra comunità».
Quel tragico giovedì 16 marzo 1978 sconvolse l’Italia intera, a prescindere dalle differenze politiche, ideologiche e valoriali, mostrando i deficit strutturali, organizzativi e di sicurezza della Nazione. L’attentato di via Fani rappresentò una grossa “ferita” per l’Italia, gettando nel panico e nello sgomento i suoi cittadini. Con il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione della sua scorta, il terrorismo colpiva al cuore lo Stato, dopo un tragico decennio di violenze, attentati e uccisioni violente. Dopo quell’efferata strage, l’Italia visse col fiato sospeso in quei 55 giorni che caratterizzarono il rapimento dello statista democristiano, poi conclusosi nel modo più tragico. Lo scenario dell'anno 1978 era quello di un'Italia, le cui istituzioni apparvero ai suoi cittadini e all’opinione pubblica in generale, come disorganizzate e impotenti, per affrontare una situazione che vedeva gli organi dello Stato totalmente impreparati, in merito alle azioni da intraprendere per farvi fronte.
Gli anni ’70 del XX secolo erano figli del “Sessantotto”, che rappresentò un fenomeno articolato che nacque dalle proteste delle giovani generazioni: un rivolgimento di passioni, parole, azioni, immaginazione e disordini che non si concluse il 31 dicembre di quello stesso anno; infatti, il “Sessantotto” non rappresentò solo un fenomeno che si esauriva nella contestazione giovanile di quell’anno. Anche la Chiesa, con il Concilio Vaticano II, fu trasformata da quei fenomeni di rivolta, fermento e agitazione. In realtà, mentre negli altri paesi il “Sessantotto” ha esaurito, dopo un breve periodo, le proprie pulsazioni vitali, in Italia si è parlato di un “lungo Sessantotto”, che è durato più di un decennio.
Nel nostro Paese quei fermenti e quei moti rivoluzionari, che avevano generato un rinnovamento sociale e culturale in vari settori, hanno prodotto, purtroppo, movimenti sovversivi e antisociali che propugnavano la violenza come unica soluzione, al fine dell’instaurazione di uno “Stato Proletario”. A ciò si accompagnava una crisi politica evidente, che caratterizzò tutti i partiti del sistema repubblicano di quegli anni. Aldo Moro fu uno degli uomini politici che meglio capì quella crisi politico-valoriale che aveva investito anche la Democrazia Cristiana. Egli ritenne opportuno effettuare un allargamento dell’area democratica, che doveva arrivare all’obiettivo della creazione di un sistema di alternanze. Per fare ciò, era necessario intessere un legame sempre più stretto tra la DC e il PCI, fino a creare una simbiosi politico-istituzionale, che doveva portare ad un’alleanza di governo. Questo illuminante e prospettico progetto politico di Moro, già avversato da assetti di potere interni ed internazionali (gli stessi Stati Uniti d’America, attraverso l’ala più oltranzista rappresentata da Henry Kissinger, Segretario di Stato delle Amministrazioni di Nixon e di Ford, mostravano tutta la propria ostilità verso Aldo Moro e la propria apertura politica a Sinistra), si rifletté con tutta la sua drammaticità anche dopo i tragici accadimenti di via Fani. Infatti, le risposte del potere politico ai 9 comunicati delle BR, nel corso della prigionia di Moro, furono di netta chiusura, in riferimento ad una possibile trattativa dello Stato con il gruppo brigatista di estrema sinistra. Le Brigate Rosse chiedevano che le istituzioni soddisfacessero delle condizioni ben precise, in cambio della liberazione dello statista democristiano.
La DC e il PCI, attraverso le figure di Fanfani, Andreotti, Cossiga, Zaccagnini e Berlinguer, dimostrarono un atteggiamento di totale chiusura in merito a tali richieste, perché lo Stato non poteva trattare coi terroristi. Il partito che si dimostrò più propenso verso un dialogo con le BR, al fine di salvare la vita ad Aldo Moro, fu il Partito Socialista italiano, attraverso la figura del suo leader, Bettino Craxi, giunto alla Segreteria, nel 1976.
Il 21 aprile 1978, la Direzione del PSI, attraverso vari canali istituzionali, fece presente di essere favorevole alla trattativa. Il 5 maggio, tuttavia, vi fu la “doccia gelata” della Democrazia Cristiana, che attraverso la persona di Giulio Andreotti ripeté il “no alle trattative”, dopo che il 22 aprile dello stesso anno, Papa Paolo VI era intervenuto, rivolgendosi agli uomini delle Brigate Rosse, perché liberassero Moro, “senza condizioni”.
Sempre nella data del 5 maggio, il Comunicato n. 9 delle Brigate Rosse annunciò: «Concludiamo la battaglia cominciata il 16 marzo eseguendo la sentenza». Dopodiché, vi fu una lettera di Moro indirizzata alla moglie: «Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibilmente l’ordine di esecuzione».
Il 9 maggio successivo, verso le ore 13:30, in via Caetani (a pochi passi dalle sedi della DC e del PCI), dopo una telefonata del brigatista Valerio Morucci, giunta poco prima delle ore 13:00, la polizia rinvenne il cadavere di Aldo Moro all’interno del portabagagli di una Renault 4 di colore rosso. La “notte della Repubblica” si materializzò, con tutte le sue incognite e problematiche in un Paese già provato da due guerre mondiali e da un regime antidemocratico, come quello fascista. Permangono, ancora oggi, zone d’ombra sulle dinamiche legate alla strage di via Fani e al successivo sequestro, a cui seguì l’uccisione di Aldo Moro:
1- Come fu possibile equipaggiare così bene i terroristi?
2- Come fu possibile architettare un attentato di tale portata nel pieno centro di Roma, in un orario mattutino?
3- Quali poteri occulti si nascondevano dietro questi terroristi?
4- Perché fu deciso di uccidere Aldo Moro, facendone il capro espiatorio di un’intera classe politica?
5- A chi dava fastidio il cambiamento proposto dal leader democristiano e perché non fu fatto tutto il possibile per la sua liberazione?
Questi sono solamente alcuni punti interrogativi che attendono, a tutt’oggi, risposte chiare da parte di istituzioni ed addetti ai lavori.