Premessa
Uomini e donne sono caratterizzati da un dimorfismo sessuale al quale, in passato e talora per non pochi ancora oggi, si riconnette una socialità differente. Alcuni sociobiologi spiegano la socialità delle specie (tra cui gli umani) a partire da teorie genetiche e gli stessi differenti comportamenti sociali sono spiegati sulla base della replicazione dei geni e dell’impegno dei rispettivi generi, ai fini della riproduzione (Wilson, 1979; Aa. Vv., 1980; Acquaviva, 1983; Dawkins, 1992). Attività e comportamenti sociali, basati su argomentazioni di questo tipo, spiegano l’organizzazione della riproduzione umana e di quella sociale, e la stessa divisione fisiologica del lavoro fra i generi, i ruoli e i compiti, sostenendo che da questa si edifica una struttura sociale che lungo la scala temporale, in ragione delle prestazioni di ciascuno, attribuisce prestigio e considerazione sociale all’individuo. La “causalità biologica” (Dolza, 1991) nella società tradizionale ha relegato le donne in ambiti domestici o, in genere, di subordinazione, al punto da “costruire culturalmente” una narrazione e pratiche sociali che volevano la donna prevalentemente come “generatrice di vita”, o come moglie sottomessa, tanto che la stessa ha acquisito la sua “capacità giuridica” nel nostro Paese solo nel 1919, con la legge n. 1176 (Severini, 2019).
I comportamenti che offendono una maggioranza o sono disapprovati, agiscono in funzione della necessità che spinge alcuni individui – in determinate condizioni – a ricorrere ad espedienti capaci di garantire prestazioni valutate bene, o di intercettare considerazione sociale, per fronteggiare l’insuccesso di alcune azioni (o l’assenza di specifiche abilità). Se l’abile cacciatore vedeva salire il proprio prestigio allorquando catturava una preda consistente, in assenza di tali abilità, per qualcun altro, ricorrere al furto della preda, rappresentava l’espediente che poteva garantire il riconoscimento sociale, mascherando abilmente la truffa.
In questo modo, allora, la spiegazione dei comportamenti trova nella base biologica, l’ambito esplicativo della gamma degli stessi, estendendo alla formazione delle strutture sociali, l’origine delle relazioni sociali e la specializzazione dei comportamenti e delle attività. Diversi autori hanno sostenuto che gli stessi processi conoscitivi, come può essere la capacità cognitiva dell’umano, non fanno altro che reggersi su categorie del pensiero, che si sono sviluppate nel corso dell’evoluzione, per cui categorie come spazio, tempo, percezione delle forme e aspettative di causalità, non si avrebbero se non ci fosse stato quel processo evolutivo, che arrivando alla capacità di comunicazione simbolica, consente all’individuo di esplorare l’ambiente, selezionando e ricombinando i tentativi e gli errori (Lorenz - Wuketits, 1968; Wollmer, 1975; Riedl, 1980; Wilson, 1980)[1].
La tenuta delle argomentazioni di questo tipo sulla diseguaglianza genetica, anche se sottovaluta la dimensione ecologica e, quindi, l’influenza dei gruppi sociali sul riflesso che essi hanno per le regole morali, i programmi politici e le più complesse spiegazioni sociologiche, resta ancora in piedi e, sebbene il dibattito sia acceso, con lo sviluppo delle neuroscienze tende ad arricchirsi e non ad impoverirsi, come vedremo più avanti (Denworth, 2019, 2020).
Per altri, invece, l’antisocialità femminile, piuttosto che essere spiegata ricorrendo alle teorie della diseguaglianza genetica[2], trova la sua base esplicativa sull’importanza dei processi di apprendimento sociale e di socializzazione, sostenendo che sono le differenze di genere, gli itinerari storici di stabilizzazione sociale dei ruoli, fino alla divisione tra sfera pubblica e privata, a determinare i vari tipi di comportamento e a spiegare le forme di interazione quotidiana tra le persone (Simon, 1975; Adler - Simon, 1979; Goodman, 1980).
La donna, un tempo, veniva “socializzata diversamente” rispetto all’uomo ed era considerata come inferiore, in ragione di fattori biologici e psichici (Demaria, 2003). Si pensi, ad esempio, al fenomeno della “caccia alla streghe”, in cui nell’arco di almeno sei secoli (dal 1257 al 1816), vennero torturate e uccise dalla Chiesa cattolica, centinaia di migliaia di donne, perché considerate eretiche (Zucca, 2004; Fiume, 2017; Garuti, 2016; Levack, 1997; Ginzburg, 1989; Henningsen, 1990; Behringer, 2004). La “donna deviante”, per tutta una serie di ragioni storiche e culturali, violava i cliché che la società patriarcale aveva per lei stabilito: la “devianza” rappresentava una prerogativa dettata essenzialmente dai maschi.
Da qui, allora, una conseguenza logica: le donne se manifestano in misura minore rispetto agli uomini dei comportamenti antisociali, lo si deve alla loro minore esposizione a ruoli sociali pubblici, al maggior tempo dedicato alla crescita dei figli e alle diverse aspettative sociali che esse nutrono e che la stessa società matura e orienta nei loro confronti (Giddens, 1991, pp. 23 e ss. e 97 e ss.; Mannheim, 1975; Heidensohn, 1985, pp. 145-196). Ma un massiccio loro ingresso nella sfera pubblica produrrebbe analoghi esiti rispetto a molti dei comportamenti illegali che registriamo per i maschi, oppure vi è un qualcosa che in “natura” le rende differenti?
Usi, tradizioni, stereotipi e perfino norme di carattere patriarcale hanno cristallizzato, nel corso dei secoli, una situazione di netta differenza e, talora, supremazia del genere maschile su quello femminile, con la relativa esclusione delle donne da ambiti professionali e, più in generale, di potere, relegandole a settori marginali della vita sociale. Se connettiamo queste osservazioni alle ragioni che vedono, anche rispetto a reati di carattere corruttivo o legati generalmente al malaffare, una preminenza dei maschi rispetto alle donne, è chiaro che la ridotta presenza delle stesse, può essere spiegata proprio facendo riferimento alla marginalità dei differenti ruoli (sociali, politici ed economici) da esse ricoperti, piuttosto che al dimorfismo sessuale.
Il presente contributo si pone l’obiettivo di chiarire il ruolo ambivalente della donna nei fenomeni corruttivi: essa corrompe ed è corrotta, è attrice o spettatrice a seconda dei casi, dei contesti o delle persone[3]. Nel primo paragrafo si presenteranno le metodologie e gli elementi che permeano l’organizzazione e la struttura del sistema corruttivo. Nel secondo paragrafo si delineerà un excursus storico-sociologico sul costruzionismo sociale e sulle teorie di genere. Nel terzo saranno illustrati i principali studi bio-genetici e il contributo che hanno apportato le neuroscienze al dibattito sul dimorfismo sessuale e, infine, ci si soffermerà – prendendo spunto dall’esame di alcuni atti giudiziari (sentenze di Corte d’Appello e Tribunale ordinario) – su determinate condizioni che vedono protagoniste alcune donne con ruoli di potere, le quali si rendono protagoniste di atti di corruzione o concussione.
Metodi e strutture del sistema corruttivo
La storia politica ed economica, specie degli ultimi trent’anni, ci ha mostrato che i fenomeni corruttivi dilagati hanno riguardato soprattutto uomini, sia nel settore pubblico che in quello privato. I fatti di Tangentopoli (Damilano, 2012; Borrelli, 1999; Di Pietro, 2001; Giangrande, 2016; Musella, 2000; Davigo, 2017), esplosi a Milano nel 1992, connessi specialmente al finanziamento pubblico ai partiti, o i casi della Tangentopoli nel sistema sanitario (Del Giaccio, 2015; Pignatta - Bertone, 2004; Brugnola, 2016; De Lucia, 2018; Poggiolini, 1995; Pomicino, 2015) avvenuti a Napoli, sempre nello stesso periodo storico, con le relative connessioni e commistioni tra politica e camorra, rappresentano la “cartina di tornasole” di tale fenomeno.
Negli ultimi anni, tuttavia, la corruzione appare quasi “normalizzata”, perché è come se fosse accompagnata da un tacito “consenso sociale”. Vi è una contraddizione in termini, in merito al modus operandi posto in essere nei vari livelli delle amministrazioni pubbliche e private: da una parte, si cerca di approntare misure di contrasto che risultino all’avanguardia verso i fenomeni di malaffare e, dall’altra, persiste un modo di pensare, quasi “accondiscendente” nei confronti di tali tipi di reati, considerando furbe e non fuorilegge, le persone che si avvalgono di procedure illecite, pur di ottenere ingiusti vantaggi (Jannone - Maccani, 2017).
Se si utilizza una lente d’ingrandimento sui fenomeni corruttivi italiani, si può notare l’esistenza di un rapporto tutt’altro che sproporzionato tra uomini e donne: guardando la quantità di donne presenti in politica o in amministrazioni pubbliche e private, si intercetta, seppur in misura inferiore rispetto ai reati commessi da uomini, una loro presenza in fenomeni di corruzione (Manzetti, 2011). In questo senso, gli stereotipi di genere affondano le proprie radici in una dimensione simbolica, che ha relegato, per tanto tempo, la figura femminile in subordine a quella maschile: soltanto in epoca più recente, attraverso i movimenti di emancipazione della donna nella società, anche il fenomeno della criminalità femminile si è trasformato in materia d’indagine, analizzando le donne sia come vittime, che come autrici di reato (Siebert, 1997). Sulla base di ciò, si può sostenere che l’antisocialità passiva o attiva è trasversale a situazioni ed ambiti, interessando sia donne che uomini (Buttarini - Vantaggiato, 2008).
L’onda corruttiva contempla, come si sa, la presenza di un numero oscuro di reati commessi ma non denunciati o non pervenuti alle autorità giudiziarie e, come tutti i sistemi, anche quello della corruzione, è dotato di una dimensione spazio-temporale organica ed unitaria, che ne definisce i caratteri e le coordinate. Se la corruzione, infatti, risulta essere un fenomeno vecchio quanto il mondo, i sistemi di potere a cui essa è legata, nelle varie epoche storiche, appaiono strutturati in specifici modi, a seconda dei differenti ambiti e dei diversi tempi (Borsky - Kalkschmied, 2018, pp. 1-40).
Gli scambi corruttivi, come visto nelle pagine precedenti del Rapporto, quasi sempre sono pianificati. I “pubblici poteri” sono colpiti da fenomeni strutturali di sistema che tendono ad assolvere, o addirittura a coprire, chi usa o abusa dei poteri conferitigli dalla legge o dalla carica che ricopre, gestendo il ruolo e la “cosa pubblica” per tornaconti personali: infiltrazioni in gare d’appalto, corruzione in atti giudiziari, approvazioni di lottizzazioni, abusivismi edilizi, ecc. Le condotte incriminate, spesso avallate da atteggiamenti di tipo collusivo, consistono nella ricezione o nella ritenzione, per sé o per un terzo, di somme di denaro o di altri tipi di utilità, delineando l’accettazione di qualcosa che viene corrisposto in modo spontaneo da colui che offre, o trattenendo presso di sé utilità di vario tipo. La condotta incriminata risulta indebita, cioè non corroborata da nessuna congrua giustificazione e l’oggetto materiale della condotta è costituito dal denaro o da tipi di utilità che possono assumere anche un carattere immateriale. Il maneggio di denaro pubblico, o anche privato, può contemplare che queste operazioni antigiuridiche possano rappresentare anche il frutto di formule collaudate di riciclaggio, che tendono ad occultare lo stesso reato per depistare gli inquirenti (Fornasari, 2008).
Come notato lungo le precedenti pagine del Rapporto, non c’è una definizione condivisa di corruzione. Barbara Huber sostiene che la corruzione è un deterioramento del processo decisionale che consente o domanda di deviare dal criterio che dovrebbe guidarlo in cambio di una ricompensa, della promessa o dell’aspettativa di essa (Arnone - Iliopulos, 2005, p. 17). Parametrandoci al gender, secondo Gottfredson e Hirschi (1990), una spiegazione della disuguaglianza di genere, in riferimento alle azioni criminali, si può rinvenire nell’autocontrollo: esso costituisce un tratto duraturo della personalità, che varia da individuo a individuo ed è connesso al processo di socializzazione, che continua durante tutte le fasi della vita. La socializzazione risulta diversa per ogni soggetto ed è la sommatoria delle regole, norme e valori che una persona ha interiorizzato. Le donne risulterebbero più autocontrollate rispetto agli uomini, e, perciò, si ritiene che siano meno inclini ad assumere condotte corruttive (Rivas, 2013, pp. 10-42). È proprio così?
Se ci concentriamo sulla corruzione, essa rappresenta un sistema in cui è presente un raffinato meccanismo di carattere omertoso che, in quanto a modalità, è simile al sistema mafioso: gli individui sono portati ad essere complici di “affari”, che appaiono legati ad un processo di sfruttamento, imposizione e subordinazione, in cui la persona più debole ne risulta soggiogata. L’omertà si presenta come una conseguenza del clima di paura imposto dal reticolo corruttivo dominato, oggi, molto dalle mafie, ma anche come il risultato della bilateralità dello stesso sistema corruttivo, in cui si può chiaramente osservare una complicità tra il corrotto e il corruttore, che richiede inevitabilmente il doversi fidare e il rispetto del silenzio. È il patto corruttivo che lo richiede. Questa specificità connessa allo scambio corruttivo dovrebbe vedere una più ampia presenza delle donne, dal momento che esse sono – specialmente nella lunga tradizione delle mafie – le depositarie dei più intensi e profondi segreti, ancorché delle tradizioni. In realtà il ruolo marginale, da sempre attribuito alle donne, ne spiega ancora oggi la bassissima presenza nella conduzione o regolazione di patti corruttivi, ove è presente la mafia.
In questo scenario, allora, è la criminalità (specie maschile) ad estendere i suoi tentacoli sui nuovi affari e nel contesto di nuove logiche di espansione si serve delle donne per particolari compiti. Questa presenza criminale prolifera nell’ambito dell’usura, come una volta nei traffici del contrabbando di sigarette, nel trasferimento di ordini dall’interno all’esterno delle carceri, oppure nel piccolo riciclaggio di denaro sporco, o nella verifica dell’attuazione dei comandi.
Costruzionismo sociale e teorie di genere
Il processo storico di riconoscimento del ruolo e dell’autonomia femminile è stato lento e difficile: la situazione di “sudditanza di genere” ha imposto alle donne, per tanti anni, minori occasioni di “devianza sociale” rispetto a quelle offerte agli uomini; tutto ciò, le ha portate ad accettare supinamente il “potere maschile” (Esposito et alii, 2018), trovandosi, quindi, “confinate” in un “ordine sociale” a loro imposto, per cui questa asimmetria di status e di potere tra i due generi ha facilitato la sottomissione femminile, con conseguenti spazi marginali di libertà (Busoni, 2000). L’ortodossia di tale ordine sociale, imposto dal vir, ha tratteggiato il percorso esistenziale delle donne, nel corso dei secoli, finendo per ritagliare sulle stesse una vera e propria “immagine sociale” fossilizzata, che ha replicato rigidamente convenzioni e procedure sociali, sentenziate dal retaggio del sistema patriarcale (Saponaro, 1977).
In questo universo femminile disconnesso dalla realtà sociale, le trasformazioni sono procedute a rilento, essendo le donne, rispetto agli uomini, escluse dai gangli della vita sociale, limitate a ruoli secondari, connaturati ad una forma particolare di inazione e pervasa da tempi morti. Una donna costretta per molto tempo a replicare il suo ruolo riflesso nella propria impasse sociale ed economica, e ad essere assente rispetto a quasi tutte le problematiche sociali pubbliche (Matthews Grieco, 2001). Un universo, quindi, quello femminile del passato, chiuso e vulnerabile, che ha condotto alla “permeabilità del genere” all’interno di un rapporto sociale asimmetrico: le “donne di casa” non dovevano avere aspettative, né dovevano possedere un retroterra culturale, né dovevano affacciarsi al mondo (Scott, 1996).
È con l’avvento del XX secolo che si rompe questo velo etico, ideologico e codicistico, che per secoli ha proiettato sugli “schermi sociali” un’immagine dominante, un modo di pensare e una percezione effettiva del mondo “maschilizzata”: un mondo antropocentrico che ha parlato esclusivamente “al maschile”.
Un’inversione di tale trend, si è avuta solo negli ultimi anni con l’avvento di una serie di leggi[4] tese alla riduzione del gender gap, per quel che riguarda la partecipazione femminile all’interno di istituzioni economiche e politiche, volte a determinare dei mutamenti, sebbene ancora parziali, all’interno degli spazi e delle distanze sociali tra i generi. L’Italia si è adeguata alla media europea, adottando gli opportuni parametri in riferimento alla presenza di donne inserite nelle Assemblee parlamentari, nei Consigli regionali, provinciali e comunali, superando la media europea, a partire dall’anno 2014, per quel che riguarda la percentuale di donne presenti all’interno dei Consigli di amministrazione di importanti holding economico-finanziarie, nelle direzioni delle pubbliche amministrazioni, nei posti dirigenziali delle organizzazioni sociali e perfino nelle Assemblee regionali[5].
Studi bio-genetici e neuroscienze
Le neuroscienze (Kandel et alii, 2014) rilevano che il sistema nervoso degli uomini è differente rispetto a quello delle donne (Musumeci, 2012): la differenza di genere non sarebbe data dal fatto che gli uomini risultino più decisi nelle situazioni e azioni in rapporto alle donne, come la consuetudinarietà farebbe credere, ma che uomini e donne riescano a percepire il mondo in modo differente. In fin dei conti, i due generi sarebbero condizionati dai significati che, di volta in volta, attribuiscono alle cose.Nel corso dei secoli, la cultura ha fatto sì che l’uomo risultasse preciso e determinato nelle scelte, dato che doveva occuparsi di mantenere e nutrire la famiglia. Diversamente, si voleva una maggiore flessibilità da parte delle donne, dati i tanti compiti che dovevano svolgere (moglie, madre, casalinga, lavoratrice). Tale tipo di “addestramento sociale” ha finito con l’influenzare, non solo il comportamento e la personalità, ma anche i significati e le percezioni, legati agli eventi vissuti (Bianchi et alii, 2009).
Cesare Lombroso (Montaldo - Tappero, 2009) è il primo autore che si concentra sulla questione della devianza femminile; l’antropologo veronese, in un suo libro del 1893, “La donna delinquente. La prostituta e la donna normale”, sostiene che la ragione della minore propagazione della criminalità femminile sarebbe da ricercarsi nella maggiore debolezza e imbecillità delle donne, rispetto agli uomini (Lombroso - Ferrero, 1893, pp. 32-49).
Freda Adler, Presidente della Società Criminologica Americana nel biennio 1994-1995, in “Sisters in crime”, edito nel 1975, afferma l’esistenza di un’interdipendenza tra fenomeni criminali e processi emancipatori. La criminologa statunitense sostiene che, solamente con la conquista della “mascolinità” e di una tangibile parità tra i generi, anche gli indici di criminalità femminile risulterebbero in crescita. Secondo la Adler, soltanto nel momento in cui le donne avranno conseguito lo stesso status sociale degli uomini, potranno essere nella condizione di compiere reati allo stesso livello dei maschi; infatti, le donne non avrebbero la possibilità di delinquere nella medesima maniera degli uomini, perché ancora assoggettate e relegate in spazi familiari ristretti (Adler, 1975).
Sulla stessa traiettoria socio-culturale della Adler, si colloca l’educatore afroamericano Willie J. Hagan, che in “Crime and Disrepute” del 1994, asserisce che se il controllo familiare risulterà più stringente, corrispondentemente, vi sarà un minore controllo sociale (Hagan, 1994). Questo dato evidente, da cui partono Hagan e la Adler, ci pone dinanzi a due poli antitetici: da una parte il controllo formale (Stato e ordinamento), dall’altra il controllo informale (la famiglia e le leggi che la governano). “Schemi standardizzati”, che conducono a stroncature metodologiche e culturali, come le teorie che, negli anni ’70 del XX secolo, soprattutto nel Nord America, condussero ad una sostanziale sfiducia nei confronti del “trattamento” proiettato verso la rieducazione dei criminali: tale modus pensandi riteneva che fosse troppo oneroso e di scarsa incidenza, questo tipo di intervento. Tuttavia, le teorie richiamate hanno avuto come effetto, quello di riportare sotto i riflettori teorizzazioni socio-criminologiche opposte che collegavano all’origine della criminalità, problematiche connaturate all’individuo: queste ultime, inoltre, hanno suscitato un nuovo interesse per le teorie biologiche, biochimiche e psicologiche della criminalità, oltre che per le ricerche concernenti la dimensione biologica della differenza sessuale.
Una nuova generazione di studiosi comincia ad indirizzare le proprie ricerche verso una direzione scientifica e metodologica completamente differente dalle analisi effettuate in passato in tale ambito, portando in auge delle dinamiche percettive e cognitive, di carattere biologico, legate all’evoluzione delle neuroscienze. In tal senso, risultano propedeutiche le indicazioni offerte dallo studio di Sarnoff Andrei Mednick, definito “teoria biosociale” (Mednick, 1978): in conformità a tale ricerca, il metodo con il quale l’individuo impara a gestire ed educare gli impulsi naturali, anche di carattere criminale e antisociale, è di tipo punitivo e ha la sua estrinsecazione ed azione, in primis, nella sfera familiare, nonché nell’ambito del gruppo dei pari.
Il dispositivo principale, che regola i fili dei comportamenti criminali, agirebbe in risposta alla punizione, essendo, quest’ultima, vincolata inscindibilmente al sistema nervoso centrale, che differisce da individuo ad individuo: nelle persone devianti, il feedback relativo all’inibizione agisce in modo molto lento; invece, lì dove la retroazione del sistema nervoso è rapida, si ingenera la susseguente situazione implicata dall’inibizione. Perciò, secondo lo studioso newyorkese, l’effetto deterrente della punizione può avere il suo scopo soltanto negli individui diversi dai criminali, che non ne percepirebbero gli effetti d’inibizione. Questa prospettiva conduce, poi, ad un’analisi psicofisica che sostanzia tale status: in questa direzione, si sono compiuti degli studi neurologici, che hanno messo in evidenza alcune implicazioni relative ad una differenza di genere tra i due sessi, all’interno dell’encefalo e che tale diversità agirebbe su udito, memoria, emozioni, vista e linguaggio (Kandel et alii, 1999). Esisterebbe, quindi, un modello di “intelligenza maschile” e uno prettamente “femminile”: tale differenza porta con sé diversi processi di raffigurazione mentale. Tutto ciò si concretizza in diverse scelte comportamentali, metodologiche e linguistiche, che si esternano in qualità espressive e stilistiche radicalmente opposte.
Ai due generi sarebbero connaturati, quindi, dei corredi essenziali di caratteristiche, insite nella propria struttura psicofisica, in un gioco di sovrapposizione e congiunzione. Tali peculiarità agirebbero all’interno del rispettivo gender, che sarebbe connaturato al proprio spazio psicosomatico, con i suoi modi di concepire la realtà sensoriale: quest’ultima sarebbe percepita in modo differente, dai diversi dispositivi mentali e corporei dei due sessi.
La visione biologica delle differenze sessuali è cambiata nel corso del tempo, ma non si è ancora giunti ad una risposta univoca, sull’individuazione di una differenza comportamentale, su base genetica, tra uomini e donne. Il cervello è modellato ed influenzato dall’ambiente circostante: come nel caso di esperimenti sui topi, che quando sono esposti a più stimoli, producono maggiori sinapsi nel proprio cervello; nello stesso modo, anche l’individuo risulta esposto al medesimo tipo di processo.
Il comportamento umano, che sia normale o deviante, è socialmente appreso e non dipende da un particolare genotipo: la criminalità risulta favorita da un ambiente sfavorevole, o comunque negativo. È interessante il caso del gene che codifica l’enzima monoamino ossidasi A (MAO-A), che è un enzima centrale nel metabolismo della serotonina: un neurotrasmettitore coinvolto nella regolazione del tono dell’umore e nella modulazione del comportamento (Caspi et alii, 2002, pp. 851-854). Gli esseri umani tendono a sviluppare comportamenti violenti, quando nascono o crescono in un ambiente violento, o comunque di emarginazione, dove hanno subito abusi o maltrattamenti sin dall’età dell'infanzia, qualsiasi sia il loro stato di attività enzimatica: basso, normale o alto. In un ambiente non sano, gli individui con un’attività MAO ridotta, acquisiscono una più alta probabilità di sviluppare comportamenti antisociali (Nilsson et alii, 2006, pp. 121-127).
Il patto corruttivo al femminile? Analisi di atti giudiziari
Ha destato scalpore l’arresto del prefetto di Cosenza, la mattina del 2 gennaio 2020, accusato di aver intascato una mazzetta di 700 euro da un’imprenditrice[6].
L’indignazione non deriva solo dalla figura pubblica (trattasi del massimo rappresentante del governo su un territorio) e dallo status della persona, ma dalla sproporzione tra la disponibilità a consumare un fatto corruttivo e il vantaggio che ne deriva. Cosa spinge, allora, un rappresentante dello Stato, oltretutto donna, a immischiarsi in una vicenda del genere perdendo reputazione, legittimità di ruolo ed esponendosi alla condanna? Diciamo “oltretutto donna”, proprio perché la centralità di questa riflessione ruota attorno all’eventuale differenza, se c’è, tra disponibilità a delinquere di maschio e femmina.
L’analisi del materiale giudiziario proveniente da diverse regioni italiane ci ha permesso di costruire, sulla base di alcune evidenze empiriche, qualche riflessione. Nello specifico, si tratta di atti riguardanti fenomeni corruttivi commessi da donne. Il primo caso che si presenta, è quello di un giudice Presidente di Sezione del Tribunale di Vibo Valentia: un pubblico ufficiale che ha agito in concorso con altri soggetti per una procedura fallimentare. Il magistrato ha diretto l’attività delle persone che sono concorse nel reato. In questo caso, il magistrato, d’intesa con due avvocati e una collaboratrice fallimentare, ha compiuto una serie di atti contrari ai suoi doveri d'ufficio, violando l’obbligo di comportarsi con lealtà, probità, imparzialità e indipendenza, tipici della funzione giudiziaria. Cosa viene chiesto in cambio? La collaboratrice fallimentare è stata incaricata della ricezione della merce: le utilità percepite dalla persona corrotta consistevano in: a) mobili per la sua casa; b) forniture alimentari fatte pervenire, a mezzo corriere, al figlio del magistrato corrotto; c) promessa di una “bella busta” per la restituzione delle somme depositate, in favore dei creditori irreperibili, in sede di chiusura della procedura concordataria che veniva recapitata presso l’abitazione del magistrato.
Il giudice, in un’intercettazione ambientale, parlando con alcuni soggetti incorsi nel reato, ha pronunciato testuali parole: «Fatemi sapere soltanto il numero del processo, quand’è l’udienza e le seguiamo direttamente queste cose, senza l’avvocato»[7]. In particolare, il giudice ha emesso sentenza di omologa della proposta concordataria; tale proposta è stata finalizzata esclusivamente a consentire all’assuntore e, quindi, al fallito, di tornare in possesso di beni già acquisiti alla massa.
Successivamente, ha compiuto una serie di atti contrari ai suoi doveri d’ufficio, effettuando pressioni su altri soggetti appartenenti agli uffici giudiziari, al fine di indurli a compiere atti contrari ai doveri del loro ufficio: in particolare, il modus procedendi in oggetto è stato teso alla restituzione, nei confronti dell’assuntore e del fallito, delle somme depositate per i creditori irreperibili e per il credito vantato dal fallimento di un esercizio commerciale. È stata ulteriormente considerata, per il suddetto magistrato, l'aggravante di aver diretto l’attività delle persone che sono concorse nel reato. Il magistrato, inoltre, ha compiuto atti contrari ai doveri d’ufficio, nell’ambito della procedura relativa alla misura di prevenzione, a carico di un soggetto (beneficiario della condotta corruttiva), affiliato al clan Mancuso di Limbadi: la funzione esercitata dal soggetto in questione, all’interno della ‘ndrina, è stata quella di esattore, addetto al recupero dei crediti, da parte del clan. Tale soggetto è stato sottoposto ad una misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale, con obbligo di soggiorno, nel comune di residenza: il magistrato ha accolto la richiesta del reo, in quanto esercitava le mansioni di relatrice e unica firmataria del provvedimento. Misure che sono risultate molto più larghe, rispetto al parere espresso dal PM, che ha proceduto in una direzione più restrittiva: in precedenza, il Pubblico Ministero ha espresso l’intenzione di circoscrivere il provvedimento all’arco temporale di una sola giornata, per l’iter relativo all’impegno documentato, autorizzandolo ad allontanarsi dal comune di residenza, per recarsi a Milano, in ragione di una visita medica. Il parere del Pubblico Ministero, infatti, si è indirizzato verso una direzione di diminutio, essendo limitatamente favorevole rispetto all’impegno documentato e non all'intero periodo richiesto.
Col suo provvedimento, il magistrato ha violato l'art. 7 bis della L. 1423/1956, in quanto, con tale atto si è autorizzato l’allontanamento del soggetto, per un periodo superiore al termine consentito dalla legge e, comunque, non documentato; tale iter giuridico si poneva in violazione dei criteri tabellari, per la composizione dei collegi vigenti, presso il Tribunale di Vibo Valentia. Nell’ambito del collegio presieduto dal magistrato in oggetto, era presente un giudice deputato ai fallimenti, il quale, nello svolgimento delle sue prerogative, non avrebbe potuto integrare il collegio competente, in materia di misure di prevenzione.
Il magistrato, successivamente condannato, ha ricevuto da parte dell’intermediario della condotta corruttiva, mobilio per la casa e forniture di generi alimentari, di cui avrebbero beneficiato il giudice e il figlio di lei, tramite recapito di corriere espresso. Ai fatti corruttivi è stata contestata l’aggravante di cui all’art. 7 della L. 203/91. La Corte d’appello di Salerno si è pronunciata in una sentenza unificatrice, che tratta del concorso di più reati: alla giudice colpevole è stata comminata una pena di anni 2 e mesi 8 di reclusione.
Passando, poi, ad un altro reato commesso dal giudice in questione, Presidente della Sezione Civile e Fallimentare del Tribunale di Vibo Valentia, bisogna rilevare che costei ha abusato dei poteri connaturati alla funzione giurisdizionale esercitata: il magistrato ha compiuto atti che si sono collocati nella direzione di indurre il Giudice Delegato, alla restituzione delle somme depositate, in favore dei creditori irreperibili, oltre che per il credito vantato dal curatore fallimentare per le pratiche di fallimento in cui era in corso il giudizio d’appello, dinanzi alla Corte d’appello di Catanzaro. La Corte d’appello di Salerno ha confermato per lo stesso giudice reo, la sentenza del Tribunale di Salerno (emessa in data 28 febbraio 2011), che nel dispositivo della stessa recita: “Assoluzione dai reati ascritti, perché il fatto non sussiste” [8].
Il secondo caso s’incentra sempre sulla “corruzione al femminile in atti giudiziari”: in particolare, ci si riferisce alla vicenda di una funzionaria della cancelleria della Procura della Repubblica di Napoli, indotta in reati di natura corruttiva ad opera di un avvocato. La cancelliera ed un suo collega, adibito alle sue stesse mansioni di pubblico ufficio, rivelano, attraverso l’accesso abusivo al sistema informatico protetto da misure di sicurezza SICP, notizie d’ufficio riservate, che non dovevano essere divulgate. Nello specifico, l’avvocato in questione ha chiesto di verificare, in merito alla posizione del suo cliente, l’esistenza dell’iscrizione nel registro degli indagati nell’ambito del procedimento assegnato alla DDA (Direzione Distrettuale Antimafia). Si sono accordati affinché, in cambio di una somma di denaro di € 1.000, fosse effettuata un’attività contraria ai doveri d’ufficio, per il summenzionato accesso abusivo.
Le fonti di prova sono rappresentate da conversazioni inserite nell’informativa della Guardia di Finanza, che è stata depositata in data 29.10.2012. La funzionaria corrotta, utilizzando le proprie credenziali, si è inserita illecitamente nel sistema informatico SICP, acquisendo le relative informazioni e stampando l’elenco dei nominativi recuperati. Il magistrato inquirente ha accertato l’oggettiva sussistenza del delitto di corruzione, in base all’effettiva richiesta di denaro, in cambio di informazioni riservate[9].
Il terzo caso esaminato riguarda un’impiegata di un ufficio postale di Grottaminarda (BN), che ha commesso reati di truffa e peculato: adibita alle mansioni di gestione del risparmio postale, si è appropriata indebitamente di somme di denaro di cui aveva disponibilità, in quanto depositate su libretti postali, mediante raggiri ed escamotage operati nei confronti dei relativi intestatari dei libretti: le persone truffate avevano un’età compresa tra i 69 e 92 anni. L’impiegata ha sottratto le somme, asportando cifre superiori rispetto ai prelievi che i soggetti richiedevano e trattenendo per sé la somma residuale (si parla di importi compresi tra i 25 € e i 200 €). Tale modus operandi era reiterato. Le è stata comminata una condanna a 2 anni di reclusione, con pena sospesa[10].
Il quarto caso è relativo all’ambito sanitario: un assistente medico, in servizio presso la divisione di ostetricia e ginecologia dell’Ospedale di Eboli (SA), ha violato norme riguardanti la funzione pubblica esercitata, incorrendo nel reato di concussione (art. 317 c.p.). La dottoressa, avendo eseguito un accertamento sulle condizioni in cui versava una sua paziente, in merito alla scelta di proseguire o interrompere la gravidanza in corso, ha messo al corrente la paziente della possibilità di procurarle un contatto con un altro medico, suo collega, che sarebbe stato disponibile ad effettuare l’intervento d’interruzione di gravidanza presso il proprio studio, nella stessa giornata, in modo da bypassare le lungaggini dell’iter procedurale contemplato nella Legge 194/78.
La dottoressa ha prospettato alla paziente un grave pericolo di vita conseguente alla presenza di una patologia (“iperemesi gravidica”) che si manifesta durante la gravidanza: tale rischio, in effetti, non era reale, ma la dottoressa si è posta l’intento di persuadere la paziente in merito all’urgenza di intervenire subito, dietro il pagamento di un compenso corrispondente alla cifra di € 1.000. L’interruzione volontaria di gravidanza è stata eseguita presso lo studio privato di uno dei due ginecologi. La dottoressa ha accompagnato personalmente la paziente e ha presenziato all’intervento chirurgico; tale intervento ha avuto luogo al di fuori di strutture sanitarie autorizzate (art. 8 della L. n. 194/78). L’iter di natura fraudolenta è stato attuato in assenza di imminente pericolo di vita della paziente, provocando alla donna una lesione personale, concretizzatasi in un’endometrite post-abortiva della durata di 21 giorni. La paziente, conseguentemente ai danni subiti, si è rivolta ad un altro centro clinico specialistico, dove è stata ricoverata. Alla dottoressa è stata contestata l’aggravante di aver sollevato l’obiezione di coscienza[11].
Il quinto caso riguarda un magistrato in servizio presso la Corte d’appello di Napoli, che aveva assunto in precedenza le funzioni di Presidente Aggiunto della Sezione GIP del Tribunale di Napoli. Il giudice ha dovuto rispondere dei reati di cui all’art. 322 c.p. (istigazione alla corruzione), riqualificato poi nell’art. 321 c.p. (pene per il corruttore), in relazione all’art. 319 c.p. (corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio), nonché all’art. 319 ter c.p. (corruzione in atti giudiziari).
Il giudice ha offerto ad un altro magistrato, facente funzioni di GIP in un procedimento in cui è stato imputato un politico italiano, esponente del centro-destra (l’esponente politico, all’epoca dei fatti, era stato eletto, come deputato al Parlamento europeo), dei vantaggi per favorire una parte processuale, affinché vi fosse il proscioglimento del politico, con sentenza di non luogo a procedere. Il magistrato imputato ha fatto presente al giudice (GIP) che il politico era (testuali parole) «tornato in sella ed era di nuovo potente» e che «era buono con gli amici e vendicativo nei confronti dei nemici»[12], per indurlo a compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio e, quindi, allo scopo di favorire una parte processuale. Il tentativo di influenzare la decisione del collega della sezione GIP del Tribunale di Napoli si rende esplicito in una conversazione ricercata e organizzata nel piazzale antistante il Palazzo di Giustizia di Napoli, ove il magistrato in questione tenta di corrompere il collega, prefigurando aiuti e favori futuri posti in essere dall’europarlamentare, in cambio di una sentenza di proscioglimento in favore dell’onorevole.
Il magistrato è stato condannato dal Tribunale ordinario di Roma, in data 12/12/2012, per il reato di tentata corruzione in atti giudiziari contrari ai doveri d’ufficio, alla pena di 1 anno e mesi 4 di reclusione, con pena sospesa. Successivamente, la sentenza della Corte di appello di Roma, che ha riformato quella del Tribunale ordinario, ha assolto il giudice dal delitto commesso, perché il fatto non costituiva reato[13].
Conclusioni
È difficile tracciare un’ideale linea onnicomprensiva che spieghi particolarità di agire all’interno del patto corruttivo e sia ascrivibile specificamente a peculiarità di gender: la corruzione non è una questione di genere, specie se si tiene conto del fatto che i sistemi istituzionali e decisionali risultano fautori di principi e ideali meritocratici, in misura proporzionale ai loro indici di trasparenza e democrazia. Si può sostenere che il nostro Paese difetti dell’una e dell’altra, ma se compariamo ciò con altre realtà del mondo, l’indice certamente sale. In realtà, in un sistema democratico e pluralistico, quando le “donne di potere” utilizzano tale risorsa, non è rintracciabile in questo processo un aspetto che le connoti in modo peculiare rispetto ai maschi. Le utilità e i vantaggi che esse ricercano tradiscono, al pari degli omologhi maschi, la loro mission istituzionale: l’antisocialità che, di conseguenza, si registra (occasionale o meno) e che le lega, in questo caso, a patti o ad accordi, è finalizzata ad ottimizzare i flussi corruttivi che non risultano alterati rispetto a quelli che si ingenerano tra uomini e uomini, tra donne e donne, e talvolta tra uomini e donne. La rivalità emerge solo per accaparrarsi i migliori favori e vantaggi.
Dagli atti sono emersi fatti illeciti, che costituiscono il frutto di transazioni fraudolente, che esulano dall’appartenenza ad uno specifico genere: la corruzione non parla il linguaggio specifico del genere. Donne e uomini sono sostanzialmente e formalmente uguali rispetto alla corruzione: le donne deviano, perché ambiscono al potere, al danaro, al successo con la stessa intensità dei maschi, quando il ruolo che ricoprono favorisce l’esibizione del potere decisionale sui destini altrui o quando hanno l’opportunità di ricavare un vantaggio. Qui potrebbe valere la tesi di quegli autori che hanno individuato nella chiave dell’“emancipazione femminile”, l’ascesi delle fattispecie delittuose consumate dalle donne rispetto al passato (Chesney-Lind - Pasko, 2013; Hagan, 1994), anche se restano marcate le differenze, specie per quei delitti violenti di cui restano maggiormente protagonisti gli uomini. Per cui, in alcuni delitti spariscono le differenze tra i due sessi e l’influenza dei reticoli di sostegno o delle posizioni relative alla geografia del potere, che ascendono da un ambiente, appaiono come più incidenti di altri fattori. Se questo ambiente, oltretutto, è attraversato dalla ricerca a tutti i costi di quelle risorse prima indicate (e che sono scarse), le singole situazioni facilmente finiscono per condizionare le decisioni e i comportamenti delle persone, unendole in maniera intensa, in una strategia e in una certa visione che non include più imbarazzo, vergogna, tormento, paura, angoscia, ma quasi orgoglio per aver “venduto” una dose di potere in cambio di un servizio, o aver furbescamente sfruttato un’occasione che altri non avrebbero saputo utilizzare.
[1] Un nuovo campo di studi, la neurocriminologia, più diffusa in ambito statunitense, ha ripreso le basi costitutive della violenza, coltivando il terreno biologistico e approfondendo il complesso funzionamento dei processi neurologici che sono alla base non solo di comportamenti psicopatici o sociopatici, ma della rottura di quell’equilibrio inconscio e automatico, garantito dal nostro sistema nervoso. Su questo, vedi A. Raine (2016). [2] Sembrerebbe quasi ripetitivo ricordare che l’impostazione bio-antropologica del crimine deve le sue basi e convinzioni al lavoro di Lombroso (cfr. Lombroso - Ferrero 1893). [3] I reati legati alle fattispecie di carattere corruttivo sono diversi: a) reato di concussione (art. 317 c.p.); b) corruzione per un atto d’ufficio (art. 318 c.p.); c) corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.); d) corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.); e) induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319-quater c.p.); f) istigazione alla corruzione (art. 322 c.p.); g) abuso d’ufficio (323 c.p.); h) rifiuto od omissione di atti d’ufficio (art. 328 c.p.). [4] La legge 120/2011 sulla parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati; la legge 215/2012 per il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli Enti Locali e nei Consigli Regionali, e in materia di pari opportunità nella composizione delle commissioni di concorso nelle pubbliche amministrazioni; il D.P.R. n° 251 del 2012 sulla parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo nelle società controllate da pubbliche amministrazioni; la legge 65/2014 relativa alle elezioni del Parlamento europeo e la legge 56/2014 per i Governi locali. [5] Cfr. European Commissioner for Justice, Consumers and Gender Equality, https://www.istat.it/it/files/2017/12/cap06.pdf [6] «La rappresentante del governo è andata agli arresti domiciliari con l’accusa di induzione indebita a dare o promettere utilità per aver chiesto ad un’imprenditrice l’emissione di una fattura fittizia di 1.220 euro che sarebbe servita a ottenere una parte del fondo di rappresentanza riconosciuto ai prefetti» (cfr. Indagato il prefetto di Cosenza per corruzione: filmata la consegna di denaro per 700 euro, in “il Messaggero”, 31 dicembre 2019, https://www.ilmessaggero.it/%20ita-lia/prefetto_cosenza_indagato_paola_galeone_corruzione_filmato_ultima_ora_31_dicem-%20bre_2019-4955724.html). [7] Corte d’Appello di Salerno, sez. penale, sentenza n. 1515 del 24 maggio 2013, p. 3. [8] Corte d’Appello di Salerno, sez. penale, sentenza n. 1515, cit. [9] Corte d’Appello di Napoli, II sez. penale, sentenza n. 10367 del 21 ottobre 2016. [10] Tribunale di Benevento, sentenza n. 195 del 28 settembre 2018. [11] Corte d’Appello di Salerno, sentenza n. 2332 dell’8 novembre 2012. [12] Corte d’Appello di Roma, III sez. penale, sentenza n. 6254 dell’8 ottobre 2015, p. 1. [13] Corte d’Appello di Roma, III sez. penale, sentenza n. 6254, cit.
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